domenica 14 dicembre 2014

Un racconto in omaggio.

Mentre l'astronave scalda i motori, posto un breve racconto che non parla di partenze inventate. Si tratta di una storia sul peso della sopportazione. Un viaggio nel limbo che separa la deflagrazione interiore dall'apparenza. *
 
Fucilata.
 
Sulla spiaggia vendevano lo gnocco. Giorgio ne comprò un sacchetto maxi, più due coche e quattro pezzi di un frutto tropicale simile all’ananas. L’avevano fritto, le sarebbe piaciuto. Avrebbe mangiato. Poi lui sarebbe andato al campetto a veder giocare Daniele, lasciandola sola ad abbronzarsi e sudare. Dopo la partita, suo figlio lo avrebbe aiutato a raccogliere le cose: l’ombrellone, il frigo portatile, le borse con le creme. Sul lungomare, le avrebbe preso una granita mentre tornavano in hotel. Poi lui avrebbe fatto le valige. Avrebbero salutato il gestore e finalmente sarebbero tornati a casa. Gli mancavano i suoi fucili.
Avrebbe fatto tappa a San Marino, solo cinque minuti nella sua armeria preferita, almeno questo glielo doveva. Chissà che stavolta non si sarebbe tolto lo sfizio di un Carl Gustaf M96. Meglio non pensarci, ora. Grazia sembrava svenuta, pancia all’aria sull’asciugamano dell’Algida. Braccia e cosce spalancate, la bocca di più. Forse le era preso un colpo, il sole picchiava come una cinghia di cuoio. Picchiava anche su un gruppo di ragazzine in vacanza post liceale. Gambe tornite sotto i pareo, culi evidenziati dagli schizzi d’acqua. Giorgio emise un fischio con la gola per reprimere pensieri fuori luogo, fuori età, fuori tutto per un uomo come lui, con un’invalida a carico.

Appoggiò il cibo sull’asciugamano. A casa, aveva già chiuso la valigia quando si era accorto di essersi dimenticato il telo mare. Aveva preso il primo che gli era capitato tra le mani, quello umido appeso in bagno, sapendo che Grazia gliel’avrebbe fatta pesare per quindici giorni, tutte le mattine. Ma intanto, mentre lo aspettava davanti all’ascensore, aveva elencato a tutto il palazzo le cose che non sopportava di lui. Era lento. Smemorato. Invecchiava a vista d’occhio. Abbinava i bermuda di tela ai sandali. Non aveva più messo i mocassini dall’ultimo matrimonio. I mocassini azzurri con i gommini sul calcagno erano l’unica cosa degna che aveva comprato da due anni a questa parte. Era lento, e il ciclo ricominciava a velocità costante. Gli sembrava di avere intorno alla testa un cerchio di fuoco che gli impediva di saltare fuori. E di gridare a tutti che quel giorno aveva commesso l’errore della sua vita. “Deve scegliere”, aveva detto il ginecologo. “Sua moglie o suo figlio. Lo faremo nascere, se vuole. Ma il rischio di paralisi per la madre è altissimo”.
 
Grazia dormiva, le orecchie tappate da due cuffie di gommapiuma arancione. Gli aveva chiesto di trovarne un paio bianche, intonate all’iPad. Ma Giorgio aveva confermato di essere il marito inconcludente che era. Le toccò una mano, cercando di non spaventarla. Neanche a dirlo, Grazia sbarrò gli occhi e lasciò partire un urlo appuntito come un chiodo che fece voltare anche il bagnino sulla torretta. “Ti ho portato le coccole”, disse per sdrammatizzare. Quando voleva sedare l’aggressività di sua moglie gli usciva la stessa voce da Gatto Silvestro che imitava ogni sera nel suo programma alla radio. Era l’effetto della sua castrazione psicologica. Le coccole non erano carezze. Erano una delle cose più ripugnanti che Giorgio conosceva. Erano le cose che Grazia non vedeva l’ora di impastare con la saliva nella sua bocca viziata. L’aiutò a mettersi seduta, afferrandola per le mani flosce e tirandola verso di sé fino ad abbracciarla. Lei lo lasciò fare, occhi bene aperti ed espressione attenta. Una bambina obbediente, ansiosa di addentare la merenda. Ingombrava come un materasso. Con un braccio se la strinse al petto. Con l’altra mano avvicinò la sedia a rotelle. Grazia si appoggiò con la schiena. Finalmente era comoda. Una paralitica al picnic, pensò. Un ghigno lacerante prese forma sulla sua faccia da lucertola, ma lo represse in un secondo.
Iniziò a imboccarla, tenendole una mano sotto al mento per evitare che si strozzasse. Aveva dovuto prendere dimestichezza con questo gesto delicato. Lui che faceva il metalmeccanico alla USAG. Di sera leggeva favole ai bambini, ma di giorno forgiava tenaglie. Lui che non era mai riuscito a prendere in braccio suo figlio nemmeno dopo i primi minuti di vita. Lo aveva solo stretto tra le mani come avesse appena tirato fuori una lamina incandescente dalla fucina: braccia tese, il più lontano possibile dagli occhi. Lo aveva passato all’ostetrica come fosse in catena di montaggio e le aveva detto di metterlo pure a incubare nella scatola con i tubicini. A ripensarci ora gli veniva un rimorso. Ora che il bimbo era cresciuto sano, mentre lei doveva imboccarla ed era diventato anche bravo. Mostrava a tutti - ai parenti, ai colleghi e adesso anche alle famigliole in vacanza - com’era facile accudire una storpia.
Le pulì il mento da un rigetto di pomodoro. Grazia era già pronta a farsi stendere di nuovo sull’asciugamano. “Niente frutta?”, le chiese. “Stai zitto e spalmami di cocco”. Pensò che questa era la frase più sexy che le avesse mai sentito dire. Non ci fosse stata gente, si sarebbe fatto schiacciare lì sulla spiaggia. Pazienza se avesse sofferto come quella volta in Turchia quando, sotto di lei, gli si era incrinata una costola ed erano dovuti tornare a casa dopo neanche una settimana di mare. Rimosse anche questo pensiero e iniziò a massaggiarle la schiena. L’olio era paraffina al cocco, così forte da far venire l’emicrania. Impastò a piene mani e la pelle fece un rumore liquido che gli ricordò il sesso. Per evitare l’erezione si sollevò con le cosce allontanando il bacino dal sedere di sua moglie su cui si era messo a cavalcioni. Il sole gli colpiva il collo, lo sentiva bruciare. Si sentiva secco come la carta da forno che usava la domenica per cuocere la pizza. Erano mesi che non cambiava foglio. Certe volte avrebbe dato fuoco alla casa. Avesse avuto la manopola giusta, avrebbe acceso il forno a mille gradi come in fonderia. Altro che pizza tutte le settimane, altro che servitù. Fosse stato meno indeciso, avrebbe preso armi - quelle vere, nell’armadio in garage - e bagagli e si sarebbe trasferito in Toscana. E allora sì, al culo la fabbrica, la famiglia, gli allenamenti di suo figlio e i problemi di quella lì. I problemi li aveva anche lui, se era per questo. Gliene avevano dati fin troppi in tutti quegli anni. Finito lo sfogo mentale e rotta l’ennesima caffettiera - gli usciva una forza erculea quando pensava e, allo stesso tempo, avvitava i due pezzi di metallo come volesse strangolare qualcuno - rimetteva tutto in ordine. Ripuliva dalle briciole la teglia della pizza e lasciava nel forno il solito foglio di carta con una tonalità di marrone nuova.
Le ragazzine gli passarono accanto. Una lo aveva guardato obliquo, le sopracciglia affusolate e nere. Era snella e scura di carnagione. Il profumo di cocco non proveniva certo dalle sue dita impiastricciate, ma da quel corpo che brillava al sole e si faceva desiderare, vivo e osceno, sotto il pareo. La osservò camminare verso il campo da calcio. Forse stava andando da Daniele che avrebbe segnato un gol solo per lei. Forse era la sua fidanzatina estiva. Si alzò veloce. Strisciò le dita sulla copertina di Armi e tiro. Non gli interessava più. Nessuno dei due, avrebbe voluto rispondere al ginecologo. “Nessuno dei due”, disse a bassa voce, mentre sua moglie ricominciava a sputare rancore da quella bocca bavosa. Guardò dritto, oltre il bar. Imbracciò un fucile immaginario, l’esile preda al centro del mirino. Censurò ogni altro suono proveniente dal telo mare dell’Algida. “Nessuno dei due”, ripeté deciso, e questa volta la zittì. Un bambino rise a crepapelle.  Andava in scena la commedia della sua vita: un uomo mimava una fucilata con il sorriso di Arlecchino stampato in faccia e una donna lo istigava a sparare, sapendo che non lo avrebbe fatto mai. Disse Bang. La gola stretta, il respiro venuto fuori come l’aria da un palloncino afflosciato. Abbassò la canna, lo sguardo in fissa verso quel punto lontano. Si riappropriò della sua voce e concluse: “Vado a comprare le granite e ce ne andiamo”. 



* pubblicato nell'antologia "Memoracconti 3", Edizioni Memori - 2014.




venerdì 12 dicembre 2014

Lontanissimo, qui.

Il mondo è questa specie di palla deforme che gli astronauti guardano dall'alto. Con i mari, i vulcani, la sabbia e il bianco, il blu e tutto il nero intorno. Un bel quadretto da appendere nei nostri tranquilli salotti mentre loro sballonzolano come palloncini tutti intabarrati nelle tute della Nasa. 
Ai nostri amici viaggiatori spaziali sembra davvero possibile poterlo dominare, il pianeta dei bipedi. O almeno tenerlo d'occhio e soprattutto starsene a distanza per lasciarlo sfogare. Accade spesso che anche noi umani (perché loro sono supereroi) pensiamo la stessa cosa. E allora partiamo alla conquista di terre lontane, con un piglio che ha tutta l'aria di essere lo stesso del conquistador. Cavalchiamo la nostra volontà, lottiamo contro i draghi, ci atteggiamo a moderni Quixote, facciamo finta che le minacce vengano da fuori. Fosse questa la soluzione al nostro mal d'inazione. Allora potremmo tutti salire su un razzo e farci sparare tra le costellazioni. Almeno da lassù saremmo davvero soli (senza sole), se proprio sconfiggere i draghi sputavento fosse la nostra missione per stare in pace con noi stessi. 
Un robot ci sveglierebbe. Verrebbe a dirci che l'ora è arrivata, anche se abbiamo detto a tutto il mondo che basta, siamo troppo grandi per fare i nomadi e abbiamo messo radici nella nostra casa, la nostra famiglia, ormai ci è cresciuta la barba e non è più possibile partire.
È in questo momento che sentiamo fischiettare questo cazzo di robot nella testa. Con la sua voce androide dichiara la fine della nostra permanenza qui, pronto ancora una volta a spararci lontanissimo.
Countdown e in un attimo arriva lo zero.


È così che decidi di prendere il primo Lowcost arrugginito e di fare un altro balzo per chissà quale angolo di mondo che devi andare a cercare.
Ma anche se il cielo inventa arcobaleni, non ho mai trovato pace tra le nuvole.Nessuno la troverà nel vasto spazio di cumuli e nembi che ci sovrasta, se non l'ha già in testa.
Eccoci pronti a partire di nuovo, comunque. Chissà come ragiona il nostro cervello che, magari fosse infante... è adolescente. Il nostro razzo è la carta, per fortuna. Oggi non si parte, si inventano mondi. C'è crisi. Si calpestano strade di cartapesta. Si contorcono ancora di più le deviazioni. Si sbaragliano pirati del mare, si ammutina l'universo con tutto il suo campionario di basi spaziali a pannelli stroboscopici. Oggi si lucidano scivoli e si fanno tuffi acrobatici nella stratosfera. È questa la nuova strada. La missione del caballero errante riprende ad anni luce di distanza. Dove ci porterà? In fin dei conti, dopo tutto questo errare interrotto da mesi o anni di vagabondaggio tra un divano, un tappeto Ikea e il tavolino delle caramelle, la meta non si è mai mossa. È ancora ben visibile oltre il vetro della finestra imbruttito dall'inverno. 
De nuevo espera primavera.
È dentro il mio zaino che Vi invito a mettere in spalla, Señores. Portatevelo in giro e soffiate arcobaleni con la vostra voce nel cielo nebuloso. Leggete. Anche se forse vi è passata la voglia. Sapete, gli acciacchi, la sciatica... ne sono consapevole! Il mal di schiena, la testa, soprattutto il cervello. Nessun viaggiatore ha tutti i pensieri in regola, nemmeno se indossa lo scafandro bianco della Michelin con la bandierina USA sul deltoide. Si getta nello spazio in cerca di una perdita di gravità. Arriverà. Capace, se non di riportarlo in equilibrio, almeno di alleggerire El Sonador del peso di tutti quei pensieri che gli si aggrovigliano in testa.
Nessuno è libero quando scappa. Ma per capirlo deve solo partire.

P.

venerdì 14 giugno 2013

Sud.














Per accogliere el verano.
Abbandonàti gli amori e gli umori della terra del toro.
El verano sorge nel cuore della grande madre.
A ja ljublju, grande madre Calabria.
El Sonador ci arriva con un'utilitaria a tre porte.
Compagna di viaggio.
Grattare via la ruggine dalle articolazioni, l'obiettivo.
Sciogliere osteociti.
Lascia che il mare e la sabbia ti prendano.
Divora tre anni di accumuli e fratture, ricomponi le ossa.
Ora che i calli abbrustoliscono a riva e all'orizzonte deflagra il vulcano.
Terra che accechi e che incendi, uno solo il tuo grido.
Sud!

martedì 15 marzo 2011

Le danze che abbiamo dentro

Come di un'arpa, sinfonico e pieno. Eppure sottile e quasi disegnato in maniera invisibile nell'aria. Così gli era apparso il suono di uno strano strumento battuto a piccoli colpi da un musicante dalla pelle olivastra davanti alla Mezquita di Cordoba.
A differenza di ciò che era accaduto in molte altre occasioni, quando aveva avuto a che fare con persone con cui voleva intrecciare il suo cammino, questa volta Sonador non proferì parola. Stette invece fermo ad ascoltare, i sensi completamente tesi a captare quel che la musica aveva da dire.
L'uomo impegnato col cembalo era praticamente fuso al suo strumento. Disseminava intorno, a colpi di martelletto, lo spirito antico della città moresca rappresentato con uno di quegli arpeggi che, nel tempo moderno, sono soliti costituire la parte sonora delle fiabe.
Nulla da obiettare, disse a se stesso El Sonador. Doveva proprio essere una cosa definitivamente importante, quel che la musica aveva da dire. Perché era in grado da sola di riempire la scena di quel pomeriggio domenicale piuttosto appesantito per la verità da una pioggia familiare soltanto agli autunni inoltrati.
E invece era già marzo, continuò a pensare mentre se ne stava in una media depressione, la primavera ancora allo stadio spermatico. Eppure, sarà anche stato l'effetto magico da principe persiano che aleggiava davanti ai suoi occhi grazie a quell'arpeggio. Anzi, mettiamoci pure la fiacca dovuta al viaggio poco entusiasmante che aveva intrapreso la mattina stessa da Siviglia, viaggio soporifero tale da ammutolirgli le percezioni. Date in premessa queste ipotesi plausibili, il dato di fatto era però che a Pablo sembrava di aver fatto irruzione in un'epoca differente da quella reale. Una cosa da emozioni fantascientifiche, tipo la bolla primordiale o lo spazio siderale.
Ma non affibbiamogli un nome a questa cosa delle emozioni e lasciamo soltanto spazio all'evidenza. Quello che non solo Pablo, ma che tutti coloro i quali erano stati catturati dalla musica in quella piazza che sapeva di Maghreb furono in grado di percepire, era una sorta di progressione stile trip, per darvi un'idea. Uno di quei viaggi in cui anche l'incedere delle stagioni può prendersi una netta pausa se gli pare. Sonador, come molti altri, subì tutta la potenza di quell'effetto musicale, sparata nei condotti cerebrali a velocità supersonica. Era una dimensione simil-acida, in cui anche l'inverno di colpo si era capovolto. Congedato, signori. Svitato dalla sua posizione abituale di stagione conclusiva e surclassato da sua maestà il sole, piombato all'improvviso sull'assemblea di uomini e donne inzuppati di suono e ora pregnanti vita come i frutti buoni dell'albero del Paradiso.
A seguito dei colpi sul cembalo, l'uomo col turbante era riuscito nell'intento di illuminare tutta quell'assemblea rimasta ad ascoltarlo come se fosse esiliata dal suo spazio reale.
Come effetto di ciò, Sonador e alcuni altri superarono il musicante con lo sguardo e si spinsero fino al vicolo che si apriva là dietro di lui. Non fu difficile allora individuare l'insegna arabeggiante che indicava l'ingresso della Teteria Al Hamid. Con mossa automatica, i passi flemmatici ma continui, Pablo si accompagnò sino alle porte del locale. Chinò la testa e passò sotto l'arco marmoreo da cui si dipartiva un mondo nuovo, fatto di aromi e delicatezze visive. Era l'incenso stavolta a respirargli dentro. E pur sempre una musica, di radice marocchina, vibrava nell'aria. Aveva già cominciato a cullarlo sui morbidi divani di velluto. Là dove un trio di donne dagli occhi neri e tondi e le ciglia lunghissime si lasciava fluire in corpo una bevanda che poteva apparire té o allo stesso modo linfa purificante per ogni pensiero. Quello di cui forse aveva proprio bisogno da tempo, El Sonador lo colse tra quei profumi, avvolto dalla morbidezza dei cuscini. Le ombre mischiate in forme stellari negli angoli illuminati dalle lampade mostravano disegni pazzeschi di quello che recitava la sua stessa anima. Ci vedeva scritti i nomi dei ragazzi e delle ragazze che aveva incontrato, la sua storia solo abbozzata fino a prima di partire, la storia della sua vita che di colpo aveva preso un'impennata vertiginosa. Vedeva scorrere parte di quello che aveva dentro sul muro di quella che sarà anche stata solo una Teteria riprodotta, ma era il posto dove ciò che aveva dentro si poteva materializzare. Le ombre delle lampade sul muro erano le danze che da tempo si portava dentro, ancora miracolosamente vive ed espressive a guardar bene nel fondo dei bracieri.

domenica 13 marzo 2011

Happiness per il Giappone

Yemira era rimasta al porto e avrebbe provato il suo bikini nelle giornate seguenti, quando il sole sarebbe tornato a far compagnia a quelle terre sperdute in fondo al continente europeo.
Sonador prese il primo mezzo possibile la mattina seguente, un treno con la testa affusolata con cui si trasferì a Siviglia. Qui, trovò posto nel primo ostello che gli capitò sotto mano e fece conoscenza con Claudia. Era una ragazza sulla trentina, trapiantata da Venezia in quella città da qualche anno e già molto esperta delle usanze del luogo. Ad esempio non si alzava mai prima delle otto e di questo si accorse El Sonador la mattina seguente, quando si mise in testa di prendere una bici a nolo.
Il banco noleggi era vuoto, così decise di lasciare un biglietto con il suo nome, un grosso sorriso col pizzetto disegnato e un pezzo da 5 infilato al biglietto con un fermaglio. Prese la chiavetta col numero 27 e prelevò il mezzo dal deposito senza badare a inutili preziosismi. Tempo due minuti e la città era già alle sue ruote, sfrigolante di pietra umida e pozzanghere rimaste dalla notte precedente. Ora però si scorgeva una luce positiva in fondo ai viali e Sonador accettò di buon grado la proposta che si era fatto da solo di attraversare la città qualunque tempo ci fosse stato e il destino gli sembrava favorevole. Scese fino a oltre il Guadalquivir varcando il ponte ed entrò nel quartiere di Triana. Una volta giunto sulla sponda opposta, si fermò a guardare indietro e osservò il sole ingiallire le facciate delle case che prendevano lo stesso colore dei cornicioni e della terra battuta che seguiva il bordo del fiume.
Non c'era granché da dire, Siviglia era proprio il cuore della Spagna. Rossa come le gesta dei toreri, gialla come il sole che la opprimeva d'estate e come, in ogni stagione, lo era la sua terra.
Batté la zona a rilento, lanciando sguardi nelle vie che si raggomitolavano strette e cercò di scoprirne i particolari. Poi, da uno dei vicoli, comparvero prima le ruote e poi il resto di un lungo telaio di bici, cavalcato da un essere grazioso e pressoché maschile. Si trattava di Massato, un ragazzo esile e ben vestito, dalla folta capigliatura nera e liscia. A tutti gli effetti giapponese.
Due cuffie enormi sulle orecchie gli avevano impedito di recepire il rumore della pedalata che veniva dall'angolo opposto. Così, come due mosconi poco propensi all'equilibrio, M. e Sonador si unirono in un tonfo unico, sconquassando il silenzio di quel vicolo ancora senza anime a prima mattina con un grosso “Ohi!”. M. finì al tappeto raschiandosi un braccio, mentre Pablo subì il danno minore a differenza della sua bici che mostrava vistosi segni sulla carrozzeria. Ebbero un bel da fare a ricomporsi, poi però, una volta tornati interi sulle bici che bene o male non avevano subito danni funzionali, si presentarono scoprendo di far parte della stessa banda dell'ostello.
Il ragazzo del Sol Levante mantenne una calma assoluta e, badando minimamente al braccio, si spolverò alla meglio i vestiti. Verificò il funzionamento dell'ipod che ancora pompava musica techno attraverso le cuffie. Ascolto solo questa, disse in un gergo tutto suo poi tradotto in inglese. E dunque non erano i finti gruppetti di rock o le popstar dell'osannato UK a soddisfare le voglie musicali della gioventù d'oriente. Bensì la Techno. Il muscoloso battito ventrale di spavaldi mietitori di dischi dagli occhi a mandorla e dannatamente prosperi di idee. Avevano alterato le sinfonie tradizionali delle geishe ornandole di elettro scratch e rendendo il suono cupo a colpi di frenetici tamburi. Ciò che ne era derivato rimbombava ora nelle orecchie di Sonador che si attanagliava nei vicoli molleggiando sulla bici al ritmo di quella incalzante frenesia made in Japan, incredibilmente impulsiva.
Giunsero all'ostello con un po' di sudore a lubrificar loro le articolazioni e con una sete da ricordare. Claudia aprì la porta e si fece avanti per congratularsi con Sonador: Hai fatto benone - gli disse - ad anticiparmi. Se aspettavi me! E grazie per il biglietto! Si sedette nel piccolo salotto insieme ai due improvvisati ciclisti e diede una boccetta di disinfettante a Massato che si passò solo un paio di tastate di cotone sulla pelle raschiata, tirando appena le labbra per il bruciore. Poi, impassibile come un maestro di kung fu, si rialzò e andò a sistemare la bici nel deposito, mentre Sonador rimase con le labbra incollate alla cannuccia a fissare la ragazza. Era simpatica quella Claudia, pensò mentre lei si era già messa all'opera a registrare due nuovi arrivati. Lui alto e filiforme con una buffa giacca marrone con le toppe ai gomiti, lei biondissima, paffuta e intrigante come la Scarlett dei film. Due nuovi ospiti della stessa locanda, venuti dalla lontana Australia.
Claudia li aveva registrati.
Claudia dialogava in un perfetto inglese, mentre il maschio tra i due proponeva un inglese piuttosto masticato come quello che si sente di solito nelle commedie, recitato però dagli americani.
Claudia li aveva istruiti sulle bellezze artistiche del luogo.
Claudia li aveva caldamente invitati a unirsi alla paellata serale.
Claudia.
Claudia ci sapeva fare. Questo era fuor di dubbio e negli intermezzi con cui si lavorava i ragazzi novelli che continuavano ad affluire chissà per quale motivo tutti in quell'ostello da minuti e minuti, alzava lo sguardo. E forse voleva incrociare proprio il suo, quello del Sonador che la stava a studiare da una certa distanza.
Distanza che non fu mai ridotta, perché di lì a poco il terremoto giapponese avrebbe aperto un vuoto di panico anche da loro. La cosa strepitosa degli ostelli è che vi puoi trovare tutto il mondo possibile, coalizzato in un'unica grande comunità senza grosse pretese nel bene e nel male.
La stessa cosa che ti fa vivere in prima persona tragedie anche di questo livello, come se diventassero tue perché appartengono a tutti.
Alla notizia delle scosse, due ragazze americane persero il controllo. Una di loro ansimava e si procurò un telefono per contattare la sorella atterrata da poco in quel di Tokyo.
Massa non si vide per un po' dopo che la notizia lo aveva colto mentre era seduto alla sua postazione internet. Quando ricomparve, non sembrava avere perso la calma, ma la sua voce incredibilmente divertita anche nel momento dello scontro con la bici di Pablo aveva preso un tono del tutto serio, molto più adulto, almeno di dieci anni.
Gli australiani non fecero nemmeno in tempo ad aprire le borse: ripartirono nel pomeriggio, non se ne capì il motivo ma certo era legato a quella catastrofe. Claudia non cancellò i loro nomi dalla lista paella. Andò allo stereo e caricò un disco reggae, mentre le luci nella saletta relax pulsavano colorate riportando in quel piccolo spazio, per quanto possibile, un filtro di happiness.

venerdì 11 marzo 2011

Notte a Cadiz (seguito della ballata)

Hombre! Non compariva una donna in quella topaia da tempi ultraremoti e, a ben vedere, ve n'era ben donde. Odori di fermentazioni diverse non invitavano il gentil sesso a varcare la soglia, l'odore secco dello sherry che lucidava i legni interni delle botti abbandonate negli angoli. I baccalà appesi a una trave curva sopra il bancone la appesantivano in maniera tale da minacciare un improvviso crollo di quel soffitto fatto di venature e screpolature dovute a un'umidità che lo imbeveva da secoli. Hombre, con quale coraggio e cosa la avesse spinta a entrare non era chiaro da concepire. Eppure la donna non sembrava avere alcuna titubanza e si spinse senza far trasparire alcun timore fino al bancone, attraversando un nugolo di gambe, di sguardi e di bocche umidicce appartenenti al più fosco dei generi maschili, in particolare alla razza marinara.
La donna era minuta, portava un paio di occhiali da intellettuale e sembrava del tutto inadatta a frequentare posti come quello, ancor di più a prendere parte ai discorsi che là si potevano tessere con gli astanti. Invece, come se si sentisse a casa propria, salì in modo agile su uno degli alti sgabelli e ordinò del vino insieme a un piatto di sarde.
L'uomo alle prese con il racconto ebbe solo una minima titubanza in cui espresse con uno sgradevole rumore di naso e gola il suo disappunto per essere stato interrotto da quella comparsa. Poi riprese a narrare del palazzo e della donna che era attesa da anni perché il Sultano potesse avere un successore. Intanto fuori iniziavano a passare i carri, veicoli di campagna a motore sovrastati da folle mascherate e tremendamente a ritmo. I canti della festa che si svolgeva all'esterno entravano attraverso i vecchi serramenti del locale e gonfiavano l'aria di suoni, mentre la sua parte odorosa era già satura. Sonador cercava di seguire la narrazione, ma la sua attenzione era spesso attratta dalle movenze della donna che aveva già terminato il primo lungo calice e si spingeva verso il secondo maneggiando da sé la brocca di terracotta. Nel versarsi da bere lanciò uno sguardo scuro al ragazzo il cui calice era tristemente vuoto e lo invitò ad avvicinarsi a lei. Sonador non se lo fece chiedere una seconda volta e si spostò verso la parte di banco più laterale dove aveva preso posto la donna. Qui le tese la mano e disse: “Encantado”. I due iniziarono a bere Osborne e accompagnarono altri bocconi di pesce tenerissimo con del Moscatel. Nel frattempo l'uomo aveva interrotto le presentazioni emettendo un urlo di petto che annunciava l'attacco al palazzo da parte di un cavaliere che fu catturato dalle guardie moresche e buttato a marcire nei sotterranei. La donna fece intendere a Sonador di volersi allontanare da quel luogo, nonostante fuori stesse iniziando a gocciolare e nella parte di mare che dava verso l'Africa si schiantassero già i primi lampi. Sonador accettò di buon grado di uscire per prendere aria, anche se non gli dispiaceva stare ad ascoltare la narrazione del misterioso palazzo. Ma non fece in tempo a spiegarle il concetto che già la donna lo aveva afferrato per un braccio e, mostrando una foga insospettabile, lo aveva condotto per strada sfuggendo alle rimostranze dei marinai.
Il Carnevale intanto avanzava senza tregua e portava le maschere attraverso i vicoli con le trombe a fare da contorno musicale. Yemira era inarrestabile e di questo Sonador ebbe la conferma nel trascorrere della notte che i due vissero fino alle luci del giorno nuovo. Yemira volle seguire la folla che era un fiume in piena nonostante dal cielo la pioggia stesse iniziando a battere copiosa. Riusciva a inserirsi tra i corpi che riempivano ogni vicolo come se ne conoscesse le formule degli incastri. Erano giunti di nuovo nei pressi del Cartuja quando i due si persero per un attimo di vista. Rischiò di essere un attimo fatale perché proprio in quell'istante dalla bettola piovvero bottiglie e fuoriuscirono due loschi individui con le braccia incastrate l'uno all'altro con fare violento. I due marinai si rotolarono per terra giungendo proprio ai piedi di Sonador il quale sobbalzò all'indietro finendo dritto all'interno di un circolo in cui artisti di strada si stavano esibendo in un flamenco incalzante. La notte proseguì dunque con El Sonador invischiato in un teso battere di mani al ritmo delle chitarre e delle calde voci andaluse, i cavalli che trainavano carri nelle vie laterali e bottiglie di alcool giù a rotolare lungo le strade lastricate di pietra. Yemira ricomparve con una di quelle bottiglie che conteneva altro vino e ne offrì in abbondanza al ragazzo che accolse senza indugio. Non è dato sapere di quante ore fosse ancora fatta la notte, ma si poteva intendere che sarebbe proseguita un po' fuori da tutto, portata via soltanto alla fine dalla luce del giorno e dalle barche dirette a El Puerto.

Ballata marinaia - parte prima

La sera era giunta precoce in quel lembo di mare che bagnava il sud ovest dell'Europa. Non aveva fatto in tempo a mettere piede a Cadiz che già l'oscurità si era impadronita delle sue strette strade e le voci dei pescatori che si assiepavano nelle bettole disposte a costeggiare il bordo della banchina lo avrebbero indotto ad allontanarsi se solo fosse stato un ragazzo con la testa del tutto sulle spalle.
Sonador stava puntando al Rio, dove partivano i traghetti per El Puerto. Stava salendo su una barca, quando una delle voci lo richiamò a riva e in particolare sulla porta del Cartuja, luogo oscuro da marinai e dall'odore acre di pesce misto a sale e sudore. La voce apparteneva a un uomo dai lineamenti arabi, la pelle secca increspata sulla fronte e intorno agli occhi. I capelli tirati sotto una specie di copricapo di tela blu lasciavano uscire qualche ciocca crespa e ancora corvina nonostante l'età che era di sicuro avanzata.
Questi prese a indicare Sonador come se dicesse sì tu, sì proprio tu, in una lingua strana e monca, come per ammonirlo a causa di una colpa che il ragazzo aveva paura anche solo a immaginare.
Il suono del flamenco colpiva l'aria del vicolo che portava nel cuore della città e una voce calda la frustava come se fosse una zampata di animale.
Sonador tese meglio l'orecchio e in mezzo alla musica gitana colse le parole strane che il marinaio gli lanciava, scoprendo che a differenza di quanto si aspettava erano un invito a raggiungerlo all'interno.
Come fu descritto dal poeta Coleridge nei suoi versi, accadde che, allo stesso modo, l'uomo della locanda lo invitò a sedersi al banco e ad ascoltare la storia che avrebbe, di lì a breve, iniziato a narrare. Una storia che parlava di un palazzo e del mistero di cui erano imbevute le mura, le torrette e i sotterranei.
Sonador sedette con gli altri marinai che erano soliti trovarsi alla bettola prima di prendere il largo nelle acque che portavano in Africa. Ordinò un piatto di pesce che venne servito con pezzi di pane caldo e patate, mentre una brocca di vino fino locale veniva continuamente svuotata nei bicchieri e ancora riempita all'orlo dal giovane oste.
Il palazzo incombeva sulle acque dell'Oceano, come lo erano gli edifici antichi della città in cui quella strana gente di mare si trovava. Non era difeso da nulla se non dalle alte torrette e dalle guardie che si alternavano per tenere d'occhio ogni movimento all'orizzonte.
In realtà, quella era già di per sé una posizione sicura perché gli unici attacchi sarebbero potuti venire dal mare che però era un lembo molto agitato e su cui spirava sempre un forte vento che più di una volta era stato capace da solo di mandare alla deriva innumerevoli imbarcazioni.
Nel palazzo viveva il sultano che dominava la costa e le terre che davano verso l'interno. Questo sultano era molto ricco e si era unito ad almeno cento donne fino al tempo in cui si svolgeva la storia. La centounesima era in attesa di essere portata al palazzo e sarebbe stata la donna prescelta per dare finalmente alla luce l'erede.
Quando il vecchio marinaio, svuotandosi nell'esafogo un intero vaso de tinto, pronunciò il nome della donna che avrebbe dato una sterzata all'esistenza del sultano, a Sonador prese una scossa tremenda che gli strizzò i muscoli che lo rivestivano dal collo alle natiche.
Si trattava del nome più soave e allo stesso tempo crudele con cui avesse mai avuto a che fare e che corrispondeva a quello della sua amata Gabriela.
La scossa fu duplice quando, nell'alzarsi di scatto per l'effetto della pronuncia di quell'ambito nome, gli uomini voltarono lo sguardo in massa verso il ragazzo che percepì tutto il peso delle acque del mare che sembrava sgorgare dai loro occhi di tempesta. Fu trattenuto da un senso di appesantimento che lo schiacciò allo sgabello e sarebbe rimasto come sotto ipnosi fissato a quel bancone, come restano ad essiccare appesi alle corde i baccalà, se sull'uscio non fosse comparsa improvvisamente Yemira.

..to be continued..forse..