domenica 14 dicembre 2014

Un racconto in omaggio.

Mentre l'astronave scalda i motori, posto un breve racconto che non parla di partenze inventate. Si tratta di una storia sul peso della sopportazione. Un viaggio nel limbo che separa la deflagrazione interiore dall'apparenza. *
 
Fucilata.
 
Sulla spiaggia vendevano lo gnocco. Giorgio ne comprò un sacchetto maxi, più due coche e quattro pezzi di un frutto tropicale simile all’ananas. L’avevano fritto, le sarebbe piaciuto. Avrebbe mangiato. Poi lui sarebbe andato al campetto a veder giocare Daniele, lasciandola sola ad abbronzarsi e sudare. Dopo la partita, suo figlio lo avrebbe aiutato a raccogliere le cose: l’ombrellone, il frigo portatile, le borse con le creme. Sul lungomare, le avrebbe preso una granita mentre tornavano in hotel. Poi lui avrebbe fatto le valige. Avrebbero salutato il gestore e finalmente sarebbero tornati a casa. Gli mancavano i suoi fucili.
Avrebbe fatto tappa a San Marino, solo cinque minuti nella sua armeria preferita, almeno questo glielo doveva. Chissà che stavolta non si sarebbe tolto lo sfizio di un Carl Gustaf M96. Meglio non pensarci, ora. Grazia sembrava svenuta, pancia all’aria sull’asciugamano dell’Algida. Braccia e cosce spalancate, la bocca di più. Forse le era preso un colpo, il sole picchiava come una cinghia di cuoio. Picchiava anche su un gruppo di ragazzine in vacanza post liceale. Gambe tornite sotto i pareo, culi evidenziati dagli schizzi d’acqua. Giorgio emise un fischio con la gola per reprimere pensieri fuori luogo, fuori età, fuori tutto per un uomo come lui, con un’invalida a carico.

Appoggiò il cibo sull’asciugamano. A casa, aveva già chiuso la valigia quando si era accorto di essersi dimenticato il telo mare. Aveva preso il primo che gli era capitato tra le mani, quello umido appeso in bagno, sapendo che Grazia gliel’avrebbe fatta pesare per quindici giorni, tutte le mattine. Ma intanto, mentre lo aspettava davanti all’ascensore, aveva elencato a tutto il palazzo le cose che non sopportava di lui. Era lento. Smemorato. Invecchiava a vista d’occhio. Abbinava i bermuda di tela ai sandali. Non aveva più messo i mocassini dall’ultimo matrimonio. I mocassini azzurri con i gommini sul calcagno erano l’unica cosa degna che aveva comprato da due anni a questa parte. Era lento, e il ciclo ricominciava a velocità costante. Gli sembrava di avere intorno alla testa un cerchio di fuoco che gli impediva di saltare fuori. E di gridare a tutti che quel giorno aveva commesso l’errore della sua vita. “Deve scegliere”, aveva detto il ginecologo. “Sua moglie o suo figlio. Lo faremo nascere, se vuole. Ma il rischio di paralisi per la madre è altissimo”.
 
Grazia dormiva, le orecchie tappate da due cuffie di gommapiuma arancione. Gli aveva chiesto di trovarne un paio bianche, intonate all’iPad. Ma Giorgio aveva confermato di essere il marito inconcludente che era. Le toccò una mano, cercando di non spaventarla. Neanche a dirlo, Grazia sbarrò gli occhi e lasciò partire un urlo appuntito come un chiodo che fece voltare anche il bagnino sulla torretta. “Ti ho portato le coccole”, disse per sdrammatizzare. Quando voleva sedare l’aggressività di sua moglie gli usciva la stessa voce da Gatto Silvestro che imitava ogni sera nel suo programma alla radio. Era l’effetto della sua castrazione psicologica. Le coccole non erano carezze. Erano una delle cose più ripugnanti che Giorgio conosceva. Erano le cose che Grazia non vedeva l’ora di impastare con la saliva nella sua bocca viziata. L’aiutò a mettersi seduta, afferrandola per le mani flosce e tirandola verso di sé fino ad abbracciarla. Lei lo lasciò fare, occhi bene aperti ed espressione attenta. Una bambina obbediente, ansiosa di addentare la merenda. Ingombrava come un materasso. Con un braccio se la strinse al petto. Con l’altra mano avvicinò la sedia a rotelle. Grazia si appoggiò con la schiena. Finalmente era comoda. Una paralitica al picnic, pensò. Un ghigno lacerante prese forma sulla sua faccia da lucertola, ma lo represse in un secondo.
Iniziò a imboccarla, tenendole una mano sotto al mento per evitare che si strozzasse. Aveva dovuto prendere dimestichezza con questo gesto delicato. Lui che faceva il metalmeccanico alla USAG. Di sera leggeva favole ai bambini, ma di giorno forgiava tenaglie. Lui che non era mai riuscito a prendere in braccio suo figlio nemmeno dopo i primi minuti di vita. Lo aveva solo stretto tra le mani come avesse appena tirato fuori una lamina incandescente dalla fucina: braccia tese, il più lontano possibile dagli occhi. Lo aveva passato all’ostetrica come fosse in catena di montaggio e le aveva detto di metterlo pure a incubare nella scatola con i tubicini. A ripensarci ora gli veniva un rimorso. Ora che il bimbo era cresciuto sano, mentre lei doveva imboccarla ed era diventato anche bravo. Mostrava a tutti - ai parenti, ai colleghi e adesso anche alle famigliole in vacanza - com’era facile accudire una storpia.
Le pulì il mento da un rigetto di pomodoro. Grazia era già pronta a farsi stendere di nuovo sull’asciugamano. “Niente frutta?”, le chiese. “Stai zitto e spalmami di cocco”. Pensò che questa era la frase più sexy che le avesse mai sentito dire. Non ci fosse stata gente, si sarebbe fatto schiacciare lì sulla spiaggia. Pazienza se avesse sofferto come quella volta in Turchia quando, sotto di lei, gli si era incrinata una costola ed erano dovuti tornare a casa dopo neanche una settimana di mare. Rimosse anche questo pensiero e iniziò a massaggiarle la schiena. L’olio era paraffina al cocco, così forte da far venire l’emicrania. Impastò a piene mani e la pelle fece un rumore liquido che gli ricordò il sesso. Per evitare l’erezione si sollevò con le cosce allontanando il bacino dal sedere di sua moglie su cui si era messo a cavalcioni. Il sole gli colpiva il collo, lo sentiva bruciare. Si sentiva secco come la carta da forno che usava la domenica per cuocere la pizza. Erano mesi che non cambiava foglio. Certe volte avrebbe dato fuoco alla casa. Avesse avuto la manopola giusta, avrebbe acceso il forno a mille gradi come in fonderia. Altro che pizza tutte le settimane, altro che servitù. Fosse stato meno indeciso, avrebbe preso armi - quelle vere, nell’armadio in garage - e bagagli e si sarebbe trasferito in Toscana. E allora sì, al culo la fabbrica, la famiglia, gli allenamenti di suo figlio e i problemi di quella lì. I problemi li aveva anche lui, se era per questo. Gliene avevano dati fin troppi in tutti quegli anni. Finito lo sfogo mentale e rotta l’ennesima caffettiera - gli usciva una forza erculea quando pensava e, allo stesso tempo, avvitava i due pezzi di metallo come volesse strangolare qualcuno - rimetteva tutto in ordine. Ripuliva dalle briciole la teglia della pizza e lasciava nel forno il solito foglio di carta con una tonalità di marrone nuova.
Le ragazzine gli passarono accanto. Una lo aveva guardato obliquo, le sopracciglia affusolate e nere. Era snella e scura di carnagione. Il profumo di cocco non proveniva certo dalle sue dita impiastricciate, ma da quel corpo che brillava al sole e si faceva desiderare, vivo e osceno, sotto il pareo. La osservò camminare verso il campo da calcio. Forse stava andando da Daniele che avrebbe segnato un gol solo per lei. Forse era la sua fidanzatina estiva. Si alzò veloce. Strisciò le dita sulla copertina di Armi e tiro. Non gli interessava più. Nessuno dei due, avrebbe voluto rispondere al ginecologo. “Nessuno dei due”, disse a bassa voce, mentre sua moglie ricominciava a sputare rancore da quella bocca bavosa. Guardò dritto, oltre il bar. Imbracciò un fucile immaginario, l’esile preda al centro del mirino. Censurò ogni altro suono proveniente dal telo mare dell’Algida. “Nessuno dei due”, ripeté deciso, e questa volta la zittì. Un bambino rise a crepapelle.  Andava in scena la commedia della sua vita: un uomo mimava una fucilata con il sorriso di Arlecchino stampato in faccia e una donna lo istigava a sparare, sapendo che non lo avrebbe fatto mai. Disse Bang. La gola stretta, il respiro venuto fuori come l’aria da un palloncino afflosciato. Abbassò la canna, lo sguardo in fissa verso quel punto lontano. Si riappropriò della sua voce e concluse: “Vado a comprare le granite e ce ne andiamo”. 



* pubblicato nell'antologia "Memoracconti 3", Edizioni Memori - 2014.




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