venerdì 11 marzo 2011

Ballata marinaia - parte prima

La sera era giunta precoce in quel lembo di mare che bagnava il sud ovest dell'Europa. Non aveva fatto in tempo a mettere piede a Cadiz che già l'oscurità si era impadronita delle sue strette strade e le voci dei pescatori che si assiepavano nelle bettole disposte a costeggiare il bordo della banchina lo avrebbero indotto ad allontanarsi se solo fosse stato un ragazzo con la testa del tutto sulle spalle.
Sonador stava puntando al Rio, dove partivano i traghetti per El Puerto. Stava salendo su una barca, quando una delle voci lo richiamò a riva e in particolare sulla porta del Cartuja, luogo oscuro da marinai e dall'odore acre di pesce misto a sale e sudore. La voce apparteneva a un uomo dai lineamenti arabi, la pelle secca increspata sulla fronte e intorno agli occhi. I capelli tirati sotto una specie di copricapo di tela blu lasciavano uscire qualche ciocca crespa e ancora corvina nonostante l'età che era di sicuro avanzata.
Questi prese a indicare Sonador come se dicesse sì tu, sì proprio tu, in una lingua strana e monca, come per ammonirlo a causa di una colpa che il ragazzo aveva paura anche solo a immaginare.
Il suono del flamenco colpiva l'aria del vicolo che portava nel cuore della città e una voce calda la frustava come se fosse una zampata di animale.
Sonador tese meglio l'orecchio e in mezzo alla musica gitana colse le parole strane che il marinaio gli lanciava, scoprendo che a differenza di quanto si aspettava erano un invito a raggiungerlo all'interno.
Come fu descritto dal poeta Coleridge nei suoi versi, accadde che, allo stesso modo, l'uomo della locanda lo invitò a sedersi al banco e ad ascoltare la storia che avrebbe, di lì a breve, iniziato a narrare. Una storia che parlava di un palazzo e del mistero di cui erano imbevute le mura, le torrette e i sotterranei.
Sonador sedette con gli altri marinai che erano soliti trovarsi alla bettola prima di prendere il largo nelle acque che portavano in Africa. Ordinò un piatto di pesce che venne servito con pezzi di pane caldo e patate, mentre una brocca di vino fino locale veniva continuamente svuotata nei bicchieri e ancora riempita all'orlo dal giovane oste.
Il palazzo incombeva sulle acque dell'Oceano, come lo erano gli edifici antichi della città in cui quella strana gente di mare si trovava. Non era difeso da nulla se non dalle alte torrette e dalle guardie che si alternavano per tenere d'occhio ogni movimento all'orizzonte.
In realtà, quella era già di per sé una posizione sicura perché gli unici attacchi sarebbero potuti venire dal mare che però era un lembo molto agitato e su cui spirava sempre un forte vento che più di una volta era stato capace da solo di mandare alla deriva innumerevoli imbarcazioni.
Nel palazzo viveva il sultano che dominava la costa e le terre che davano verso l'interno. Questo sultano era molto ricco e si era unito ad almeno cento donne fino al tempo in cui si svolgeva la storia. La centounesima era in attesa di essere portata al palazzo e sarebbe stata la donna prescelta per dare finalmente alla luce l'erede.
Quando il vecchio marinaio, svuotandosi nell'esafogo un intero vaso de tinto, pronunciò il nome della donna che avrebbe dato una sterzata all'esistenza del sultano, a Sonador prese una scossa tremenda che gli strizzò i muscoli che lo rivestivano dal collo alle natiche.
Si trattava del nome più soave e allo stesso tempo crudele con cui avesse mai avuto a che fare e che corrispondeva a quello della sua amata Gabriela.
La scossa fu duplice quando, nell'alzarsi di scatto per l'effetto della pronuncia di quell'ambito nome, gli uomini voltarono lo sguardo in massa verso il ragazzo che percepì tutto il peso delle acque del mare che sembrava sgorgare dai loro occhi di tempesta. Fu trattenuto da un senso di appesantimento che lo schiacciò allo sgabello e sarebbe rimasto come sotto ipnosi fissato a quel bancone, come restano ad essiccare appesi alle corde i baccalà, se sull'uscio non fosse comparsa improvvisamente Yemira.

..to be continued..forse..

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