martedì 22 febbraio 2011

Premesse: SEGOVIA (Immaginari rottami)

La mattina dopo era domenica e come accadeva di solito nei giorni di riposo Sonador venne svegliato da Xabio. Amico del giovane Pablo, il fido X. era in grado di condurlo nei posti più reconditi senza dare adito ad alcun dubbio sulla destinazione, tanto era padrone di quelle terre semisconosciute ai più. E così era, e in maggior modo, anche per il giovane P.
Sonador si affidò quindi a quella agile mappa umana che era il fido Xabio, per altro abbigliato da camminatore turpe quella mattina. Salì il sole dietro la collina orientale e salivano essi stessi, camminatori del mattino, proiettati verso una meta sino a quel momento immaginata solo nei romanzi dark.
Trattavasi di un castello con le guglie. Qualcosa di simile si era visto nelle fiabe di origine americana, ma per loro era un posto più affine al romanzo cardine di Stoker. Sta di fatto che le punte per loro erano oscure prigioni. Le alte pareti l’inespugnabile rifugio del Conte.
Alla base scorreva un fiume solitario, alla base dell’alta struttura di sostegno di quel tutt’uno di roccia formato dalla rupe, dal corpo del castello vecchio e dalle torri. Rupe, castello, torri. Irrorava quell’altura unica di pietra romanzesca. A fare da legante un ponte colossale occupava ogni cosa, con arcate così ampie da farci stare sotto Ercole e le simili divinità della famiglia. Si elevava a piloni giganteschi e slanciava lo sguardo di chi si era spinto sin lì verso la cima di quella composizione naturale e umana in parti equilibrate.
Ma Sonador e Xabio erano oltremodo curiosi e veri e propri creatori di mondi, che fossero in preda al sonno nella notte più fonda o che si trattasse del giorno nuovo. E così fu anche quella volta, mattina piena ai piedi dell’altura.
Ai loro occhi il castello era la prigione e le pendici dell’altura il muro separatore del mondo malato da quello ancora più distrutto.
Proprio sotto il ponte più alto che avessero mai visto dilagavano i depositi civili con suprema arroganza. Gli uomini avevano costellato la boscaglia e il bordo fiume dei più impensabili attrezzi d’uso per la loro deriva umana.
Lavatrici e congelatori arrugginiti, ferro corroso e bidoni di brodaglia paludosa, forse composta da acidi. O forse da fanghiglie, in cui la mano inquinante del 2000 aveva colato il frutto dei suoi esperimenti.
Enormi rottami di auto e altri oggetti più piccoli e svariati. Un cesso incredibilmente bianco lucente. Manichini dal profilo hard oppure horror che fosse, definizione comunque compresa di trash o, più volgarmente, spazzatura.
All’interno di quel guazzabuglio, un cane era ancora vivo e percorreva i sentieri lasciati per il passaggio chissà da chi, in cerca di residui da sbranare.
Sonador fece la faccia del cane deluso.
In quale mondo assurdo lo aveva condotto il fido Xabio?
Ma quello si volse all’amico con il dito alzato arabo a turbante, esprimendo il suo pensiero dittatoriale: “Qui si è e qui si svolge la nostra giornata, sia chiaro. Si svolge così come è stata cogitata”, disse perentorio senza se e senza ma, lasciandolo bianco in viso come cementite.
Detto ciò, X. riprese a salire lungo lo stesso sentiero che sarebbe stato raggiunto a breve anche dal cane. Sonador si volse indietro e pensò quasi di andarsene, abbandonando il truce amigo creato forse dal suo sonno incontrollato e non vero.
Si rese conto che tergiversare non aveva senso e siccome non era un ragazzo deciso, cercò di mantenere il passo per seguirlo, ma non smetteva di pensare alla verosimiglianza di quella parte di mondo alla realtà.
La salita a quell’andatura da conoscitori del luogo non aveva grosse limitazioni. Giunsero infatti in poco tempo sulla cima, proprio alle porte del castello. Guardarono indietro prima di oltrepassarne l’ingresso: Avila era dall’altra parte della valle anche se non si scorgeva più. A Pablo rimaneva oscuro il motivo del trasferimento a Segovia passando proprio sotto quel ponte. A guardarlo bene era lo stesso ponte che le sue mattine pendolaresche di qualche anno prima gli proponevano nel transitare oltre Varese. Già, Varese la lontana. Ponti come quello disgregati dal tempo si trovavano in molte zone intorno alla sua vecchia città, soppiantati da civiltà arrembanti di acciaio e cemento, produttrici di quelle stesse distese (in)civili anche nel basso dei suoi paesaggi immaginari. Ecco dove la sua mente li aveva ripescati.
Finalmente era tempo di aprire gli occhi e, in effetti, Segovia era tutt’altro. Se la sognava ancora sì, ma stavolta con gli occhi bene aperti. Ci pensò su: era quel posto che, tutto sommato, avrebbe trovato reale in un tempo ormai non così lontano come poteva sembrare. L’inverno si stava sfilacciando, un po’ come il sogno bizzarro che era fuoriuscito dalla sua testa molto stanca, ma poco importava. Il paese in cui abitava era ancora antico ai suoi piedi. I ponti disgregati una realtà vicina, ma presto se li sarebbe lasciati alle spalle.
Cinque giorni ancora alla materializzazione del futuro.

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