martedì 15 febbraio 2011

Premesse: AVILA (la notte del felino)

Era stretto dal freddo, abbracciato a sé stesso su una panchina della piccola piazza. La testa ripiegata di lato, la bocca aperta in un’espressione di ripudio o di congelamento. Doveva sentirsi pieno zeppo di alcool anche nel sonno per essersi abbandonato con quell’espressione fradicia sul viso. O era quasi sonno.
Era crollato in poco tempo, ma una parte di lui era rimasta vigile perché gli era già capitato una volta di risvegliarsi completamente gelido al mattino e si era preso una polmonite. Ormai era chiaro, non aveva più il fisico di un tempo. Esagerazione, diceva quel minimo di pensiero che lo teneva collegato alla veglia. Aveva solo bevuto un po’ e ora si sarebbe rimesso in sesto, ne era certo. Una riordinata ai capelli, una spruzzata d’acqua sul viso e in bocca e sarebbe stato di nuovo fresco e sereno come la mattina precedente. Ventiquattro ore distante dallo star bene. Quasi bene.
Ma intanto era lì, accartocciato ancora su quella panchina, la bottiglia vuota rotolata un metro più in là. Sentiva il cristallo della notte scricchiolargli intorno, come se il freddo rigido dell’inverno lo stesse davvero inglobando con il suo artiglio. Tentò di aprire gli occhi, ma le palpebre erano quasi incollate. Ghiacciate le parti umide in quel punto. Lo scricchiolare del gelo o del legno secco di quella panca abbandonata lo disturbava. Avrebbe voluto alzarsi di scatto e allontanarsi da lì, cercare la via di casa. Buttarsi sul materasso e togliere il disturbo. Intanto il vento furtivo scompigliava i rami più esili di una pianta rimasta a solitaria guardia della piazza. E lui cercava di svegliarsi del tutto, ma ogni movimento era quasi annientato, dieci volte più lento del normale.
Intorno a lui un freddo da altitudini over, lo stesso che aveva provato nell’alto lago, oltre i 1000. Riprovò a muovere gli occhi in su, sentì corrugarsi la fronte e uno spiraglio di luce finalmente apparve oltre le palpebre, il giallo di un lampione che sibilava per la corrente che aveva dentro. Ancora un’ombra più scura e poi di nuovo luce, un poco più chiara e vibrante.
Aveva quasi aperto un occhio, quando un corpo gli piombò addosso emettendo un rantolo bestiale tale da schiantarlo di una paura mortale. Sonador si alzò dritto col busto e, percorso da litri di adrenalina nelle gambe, scattò in piedi sparando un urlo di gola e agitando le braccia. Era tornato al mondo e, per lo spavento, era caduto in avanti sbattendo le ginocchia sull’asfalto. Ma non ne subì il colpo; si alzò in tempo quasi nullo, come percorso dalla stessa corrente che attraversava il palo.
E come se un rantolo dello stesso animale che lo aveva colpito gli fosse rimasto incastrato dentro, Pablo era in completa agitazione. Tanto che, se uno qualsiasi degli abitanti del quartiere si fosse affacciato al balcone in quel momento, avrebbe visto uno scalmanato esibire i movimenti sperimentali tipici del trattamento brainmachine.
Ma nessuno lo vide, mentre era lui ad aver notato fuggire un essere a quattro zampe simile a un grosso gatto o forse era un maledetto animale della notte. Agile come doveva essere prima della caduta, il probabile felino si allungava per la salita che portava alla cima del paese. Preso da una violenza vendicativa, Sonador si schiaffeggiò il viso per essere sicuro che un altro dei suoi sogni vigili non lo avesse catturato di nuovo. Non era stato così, era tornato a vedere la notte, con il suo viso gelido e molto scompiglio in corpo. Ma anche tanta curiosità, segno che forse stava tornando in sé, e questo lo tranquillizzò un po’. Così si mosse lungo la salita con più calma, ammortizzando la fatica a respiri lunghi e con frequenza costante. Riprese il battito normale, avanzava piano dietro l'essere che ora si manifestava chiaro come un felino. Un semplice gatto che sembrava aspettarlo, lo guidava verso l'alto per portarlo forse in un pezzo di mondo migliore. Una stravagante passeggiata verso la cima del paese dove li aspettava una cattedrale.
Quando la raggiunsero, il gatto si spinse nell’oscurità senza voltarsi più e Sonador, adesso più rilassato e docile, si rese conto di avere inseguito un essere come lui. Un povero diavolo, caduto dai rami seccati dall’inverno. Come lui vittima degli eventi, ma molto più energico e vitale.
Riprese in poco tempo la forza che gli era mancata prima e aprì lo sguardo al paese in basso, alle finestre, alle case assopite. Aloni di luce vaga nelle vie strette e la vecchia piazza. Davvero una pozzanghera da lassù.
Le torrette delle mura, un tempo difesa per il paese, erano ancora una fortezza inespugnabile. Il posto che, quasi istintivamente, aveva raggiunto lo era.
Pablo, con un sorriso molto più elastico sulle labbra, si rese conto di essere un uomo solido. La forma a cerchio della maestosa muraglia lo contornava, i bastioni di pietra lo proteggevano. E lui poteva ancora mirare in alto come aveva fatto quella stessa notte, per raggiungere una città in altura o la sua stessa aspirazione che, travolto dagli eventi, spesso tendeva a dimenticare.

Nessun commento:

Posta un commento